Ligabue: «Mio padre, io padre»
Il cantante racconta a Vanity Fair della morte del genitore a 4 mesi dalla diagnosi e di «quel lutto che non trova posto» per i tre figli che ha perso.
Luciano Ligabue ha 52 anni, una maglietta, un paio di jeans e gli stivali, quella faccia da indio che conosce le erbe medicamentose e se gli dici dove ti fa male ti dà in silenzio la ricetta: un verso di una canzone, un bicchiere di vino, un punto da cui guardare il cielo di notte, un sorriso breve. Cammina per Correggio e saluta i vecchi fermandosi a parlare con loro in dialetto, si vede – si sente – che questo posto è il suo posto (...).
In questa intervista, cominciata in una soffitta mentre faceva buio e finita a tavola con i ragazzi della band a parlare del prossimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra, a maggio, del prossimo disco, in autunno o «quando verrà», si è parlato di musica e di libri, di politica e di calcio, di cinema, di donne e di droghe, di successo e di solitudine, di vita e di morte.
Molto, di morte. Di quella del padre, di cui parla in prima persona in Lo vuole vedere?, il più amato dei capitoli del nuovo libro di racconti Il rumore dei baci a vuoto. Di quella dei suoi figli non nati, «un lutto che non trova posto». Di quella, per Aids, dello scrittore Pier Vittorio Tondelli, una notte d’inverno, nella stessa casa dove Ligabue non riusciva a dormire, due piani più sotto.
Dell’amore, che è l’unico modo per fregare la morte. Della timidezza, «che io sono proprio timidissimo, sa?». Della lentezza, che serve. Perché «quando Paolo Casarini, che era il mio prof di Lettere a Ragioneria, ci disse: "Ragazzi se qualcuno di voi ha un’ambizione da coltivare questo è il momento", io sentii che stava proprio parlando con me. Ma poi per trovare la voce della mia voce ci ho messo dieci anni. Se legge i miei libri? Non lo so, devo chiederglielo. Di sicuro ascolta le mie canzoni».