Nonostante la sua aria da inquietante megera, è la vecchia più attesa ed amata dai bambini: la Befana, colei che pone la parola fine alle festività natalizie con il suo carico di dolciumi e doni, negli anni ha visto il proprio aspetto divenire sempre più cupo ed orribile anche se la tradizione ne faceva soltanto una tranquilla vecchietta che portava regali e premi ai bimbi buoni e carbone a chi non aveva meritato altro. Esigenze o tendenze del mercato, ormai consolidate da diversi decenni, hanno progressivamente trasformato la vecchia, in origine semplicemente brutta, in una vera e propria strega, assai più simile a quelle che, munite di scopa, sciamavano nei cieli notturni per recarsi al noce di Benevento prima di essere arse come peccatrici e serve del demonio.
Ma chi è questa anziana signora? In realtà la Befana – il cui nome appare già dal XV secolo e deriverebbe dalla corruzione della parola Epifania, manifestazione, ossia la prima pubblica manifestazione del divino Gesù – ha un’antica storia che si perde nella notte dei tempi e che non può certamente essere ridotta alle più recenti stratificazioni culturali e commerciali. Tradizionalmente si ipotizza che tale personaggio vada associato ad usi e consuetudini legati al calendario agrario: in origine “Befana” avrebbe indicato il fantoccio da esporre nel corso della dodicesima notte trascorsa dopo il giorno del Sol Invictus, a testimoniare la fine del delicato periodo di passaggio seguito al solstizio invernale e l’inizio ufficiale del nuovo corso solare ed annuale.
Perché l’aspetto da vecchia? Naturalmente come personificazione dell’anno vecchio da buttar via: non a caso, presso molti piccoli centri italiani (ed anche europei) era usanza contadina radicatissima dare proprio fuoco al fantoccio abbigliato con vesti logore e consunte, affinché portasse via con sé tutto il passato ed aprisse la strada al nuovo; non di rado, il simulacro veniva portato in giro tra la gente, affinché prendesse insulti e maldicenze, prima di venir distrutto. Va comunque ricordato che di falò ne esistono diversi e, tra chi preferisce la ricorrenza di Sant’Antonio Abate (il 17 di gennaio) e quelli che invece li fanno rientrare all’interno dei cicli rituali legati alla Quaresima o al Carnevale, esigenza dell’essere umano è sempre stata quella di salutare il vecchio e dare il benvenuto al nuovo, magari attraverso un bel fuoco purificatore. In questa ottica andrebbe interpretata anche l’usanza dei doni, come scambio indispensabile di buon augurio.
Nella Toscana del mondo contadino era consuetudine, all’imbrunire del giorno del 5 gennaio, che gruppi di giovani ed adulti si recassero di casa in casa e, accompagnati da organetti e violini, intonassero canti sacri e profani chiamati, appunto, Befanate. Le porte favorite erano quelle delle famiglie più ricche, dal momento che la tradizione prevedeva l’elargizione di piccoli doni o mance ai festosi musicanti, i quali ricambiavano con canti di saluto, di augurio e di ringraziamento. Usanze simili si ritrovano in altre regioni italiane, anche se con nomi differenti, e testimoniano dell’importanza che questa giornata ha sempre avuto nel sentire popolare, ben prima di divenire una festa dedicata esclusivamente ai bambini.
Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio «il mondo è pieno di prodigi: gli alberi si coprono di frutti, gli animali favellano, le acque dei fiumi e delle fonti si tramutano in oro. I bambini attendono regali; le fanciulle traggono al focolare gli oroscopi sulle future nozze, ponendo foglie d’ulivo sulla cenere calda; ragazzi e adulti, in comitiva, vanno per il villaggio cantando il canto della strenna (la Befanata), o preparano, qua e là, i focaracci, fra suoni e schiamazzi». Così era scritto sull’Enciclopedia Italiana nel 1930, alla voce curata da Raffaele Corso, etnologo ed antropologo che si interessò anche di tradizioni popolari italiane.